HOMO HOMINI LUPUS, SCIACALLUS, SERPUS IN SENUM

(POST AD ALTO CONTENUTO DI SCAZZO)

Scusate il latino.  Ma sono passati troppi anni da quando ero una ridente studentessa del liceo classico col dizionario come appendice del mio braccio e non mi ricordo davvero una beneamata.

Pensavo. (Eh, si, sono in vena di pensieri ultimamente, abbiate pietà e pazienza oppure saltateli a pié pari fin quando non tornerò con le mie quisquilie e castronerie – che potete anche leggere ‘str*****e’).

Pensavo che i più grandi ‘problemi’ della mia vita (oltre a quelli generati dalla mia condizione di laureata e precaria a vita, ovvio) sono sempre stati quelli legati ai rapporti umani.

E parliamo di problemi iniziati alle elementari, o forse no: ancora prima, all’asilo.

Non entrerò troppo nel personale, ovviamente. Ma basterà dire che io sono quella che le cose le sente nello stomaco (e ve lo testimonia bene la mia gastrite), sempre e comunque, in bene e in male.

Perciò non sono mai stata capace di reggere rapporti di circostanza, a fasi alterne, a metà, a collaborazione occasionale, a periodi, a mensilità alternate, a progetto e via dicendo. Ho sempre preferito il classico ‘pochi – o anche pochissimi – ma spettacolari’.

Non sono in grado di fingere simpatie ed empatie che io non provi in effetti, né so nascondere rospi in gola (poi vorrei sempre sapere come un rospo possa starci in una gola medio-piccola), ombre o pensieri vari e poco chiari.

Sono una da tutto o niente, e questo è sempre – e sottolineo sempre – stato un grosso problema. Non mi so accontentare di briciole, ritagli di tempo, sorrisi solo due settimane al mese, e via dicendo. Non ce la faccio proprio.

Perché io sono quella che se ti sa in difficoltà si rialza dal letto alle tre di notte per venirti a prendere ovunque tu sia (fatto), ti regge la testa mentre ti liberi di una sbornia di quarta qualità e poi ripulisce il pavimento e ti ficca sotto la doccia (fatto), cerca di capirti anche quando non ti condivide (fatto), litiga con eventuali fidanzati perché tu, da amico/a, vieni sempre prima (fatto, sempre), ti pensa quotidianamente e te lo dimostra (fatto).

E non è una lista delle mie doti; questi, sappiatelo, sono tutti difettacci. Perchè i 3/4 del mondo girano in senso contrario, dunque abbiamo: mi senti se e solo se mi va e quando mi va, ti voglio bene martedì e giovedì ma mi sa che mercoledì e venerdì ho altri impegni, sei felice? si ma non cantare vittoria, sei triste? oddio, mi dispiace, però su dai non essere pesante, non mi è piaciuto qualcosa di te? Ovvio che NON te lo dico, faccio buon viso a cattivo gioco ma cambio le carte in tavola mentre tu non guardi.

Si: ho il dente avvelenato. Si: vorrei essere diversa, essere totalmente indifferente, non credere al mio stomaco (nemmeno quando mi implora cioccolata, così farei fuori almeno 3 kg). Si: ci provo. Ho iniziato un lungo ed estenuante lavoro su me stessa per il quale fingo che non me ne importi anche se invece non è così.

Le altre volte, nel mio passato recente, mollavo: ero quella che scriveva sms lunghi quanto l’Odissea (e incomprensibili allo stesso modo, probabilmente), che ti attaccava bigliettini sul citofono, che voleva capire, parlare, capire e ancora parlare, parlare, parlare.

Oggi non più. Oggi rispetto i silenzi e le lune di chiunque. E ad ogni silenzio cancello anch’io una di quelle parole che vorrebbe uscirmi dalla bocca. Ad ogni domanda che non faccio metto un altro metro in mezzo.

Così facendo, è naturale, le distanze aumentano a vista d’occhio, tutto si perde, poco o nulla si conserva, ma tant’è.

Se ogni relazione, oggi, è un rapporto di lavoro a tempo determinatissimo, e appena per qualche motivo (valido o meno, evidente o meno) smette di dare ‘profitto’ viene immediatamente cessato (senza degnarsi nemmeno di spiegare o chiedere) allora scusate ma io voglio adeguarmi.

Poso la bandiera della diversa a tutti i costi e faccio come voi, anzi, spero di riuscire a fare anche peggio di voi.

Perché scema si, ma idiota kamikaze proprio no. E finché sono in tempo, io la pelle me la salvo, ché l’ho già maltrattata fin troppo.

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La mondina delle parole

Nei blog vanno e vengono diversi nik, alcuni tornano, altri sono di passaggio, quando si vede un nuovo nome è cortesia andare a conoscerlo.

Forse è ormai un anno o più che ho conosciuto Lilaccci de Le mie prigioni

Lei ai tempi lavorava in un call center.

Sì potrebbe benissimo aver parlato con voi mentre stavate correndo in bagno, cambiando un pannolino, far saltare la frittata.

😀

Mi è piaciuta subito, ed ha confermato la mia idea che di certo anche loro non si divertono a telefonare a casa delle persone e lo sanno a volte di essere invasive.

L’ho letta sempre volentieri per il tono ironico che ha saputo mantenere pur nel raccontare un lavoro bistrattato, poco pagato e pure bersaglio delle peggio parole.

Beh da qualche mese Lilaccci è diventata Dalila Coviello autrice di Alice nel paese dei call center

Ho comprato l’edizione per kindle e l’ho letta…

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NON TROVO UN TITOLO ADATTO

Mi viene da pensare, mentre mi iberno in ufficio, col thermos non abbastanza bollente e le idee confuse, col fuso orario di Tokyo per quanto riguarda il sonno e lo stomaco dei giudici di Masterchef (avete presente? In grado di mangiare qualunque cosa a qualsiasi ora. Ecco, sono io.) per quanto riguarda il cibo.

Mi viene da pensare, e non si tratta solo del classico ‘come farò a riabituarmi’ dopo due settimane di ferie (anche quello, certo, ché il trauma è ancora vivissimo e grazie al cielo che la settimana di ripresa è iniziata mercoledì e non lunedì e quindi domani è “già” venerdì).

Ripenso ad una domanda, bella, apparentemente banale ma effettivamente pesante come un macigno, che mi è stata rivolta durante una delle presentazioni di Alice.

‘Cos’è per te la libertà?’

Ho sorriso fuori e dentro, dando la risposta in cui credo di più. Libertà è poter essere quello che si è e che si vuol essere, esattamente e puntualmente. Poterne avere la possibilità. Ovvio, la mia risposta faceva capo al discorso specifico sul lavoro, le professioni, la realizzazione personale.

Ma vi risponderei la stessa cosa in qualsiasi altro ambito.

Libertà. Di parola, di espressione, di credo, di modus vivendi, di orientamento sessuale, di ideali, di dissentire, anche.

Libertà senza ledere, ovviamente, ma pur sempre libertà. Parlare è essere liberi, ecco perché non riesco a smettere di farlo. Mia madre dice sempre che dovrei soprassedere di più, abbozzare, far silenzio. Vivrei meglio, avrei meno grane da risolvere.

Probabilmente ha ragione, ma davvero, non ne sono capace. La mia intera esistenza si fonda sulle parole, scritte e pronunciate.

Parlare è essere liberi. Parlare è liberarsi.

C’è chi parla parlando, chi lo fa scrivendo, chi cantando, ballando, dipingendo, urlando, creando.

Parlare è essere liberi. Parlare può salvare vite e distruggere mondi, trascinare, respingere, arginare.

Quante cose avete fatto parlando? Pensateci. Trovato o perso lavoro, salvato relazioni e chiuso storie, manifestato dolori e felicità, redento qualcuno, fatto pensare qualcun altro. O magari nulla, ma di certo avrete fatto del bene a voi.

Le parole e la libertà, a mio avviso, sono così strettamente correlate che quello che viene fatto alle une si ripercuote inevitabilmente sull’altra e e viceversa.

Ed è per questo che il mio stomaco va in subbuglio e la mia coscienza scalpita quando leggo notizie come quelle di Charlie Hebdo. Così come quando a scuola imparai che in alcune epoche i libri ritenuti pericolosi venivano bruciati. Così come ogni volta che vedo qualcuno – uomo, donna, bambino – privato del diritto di studiare, di esprimersi, di scegliere la sua vita, di difendersi. Così come quando tutto il disappunto e la frustrazione di vivere in un Paese con troppi errori viene riversata su gente che ha perso tutto e che rischia la propria vita in mare per scappare da orrori che noi non conosciamo né possiamo immaginare, sempre in nome della libertà e della speranza. Così come quando per tenerti il posto di lavoro devi tacere e farfintadi.

Così come ogni volta.

Parole, libertà, speranza, corrono per me sullo stesso filo.

Questo mondo mi fa male, un pò ogni giorno, ma oggi ringrazio chi a Parigi è sceso in piazza per mostrare la frase NOT AFRAID scritta a caratteri cubitali su un cartellone, chi ha scattato quella foto e l’ha fatta circolare, chi ascolta prima di parlare, chi prova a capire, chi non dorme del tutto serenamente sapendo di vivere su un pianeta dove succedono cose come questa.

Ringrazio chi parla e spera, ed in questo trova la propria libertà.