C’ERO UNA VOLTA

Una volta c’ero io che quando ero troppo triste o troppo felice scrivevo.

Riempivo pagine, fogli, pixel, diari, agende, angoli di quaderni destinati ad altro-  riempivo sms e a volte li spedivo anche.

Scrivevo e scrivevo, e addirittura ho scritto Alice, l’ho creata, le ho dato vita, questa piccola eroina che mi ha regalato una felicità immensa e un sogno avverato.

Poi, non so come né perché, ho smesso.

I quaderni si sono riempiti solo di calcoli e appunti utili, “da grandi”. Alice ha continuato a vagare per il mondo, almeno lei, e ogni tanto mi arriva una sua cartolina tutta sorrisi e felicità. Le agende, un pò impolverate nei cassetti, sono rimaste a metà. A volte mi chiamano, provano a invogliarmi, tutti quei fogli bianchi e tutte le penne colorate che ho da parte, ma è raro che ci riescano.

Gli sms li scrivo ancora, quelli si. Sono sempre lunghissimi e pieni di tutto il dolore, la gioia, la rabbia, la speranza, il risentimento. Però ho smesso di inviarli.

La verità, che mi è giunta luminosa in una sera nerissima di autunno pieno, è che io ho sempre scritto degli altri. Anche quando parlavo di me, io parlavo di come gli altri mi facevano sentire o non sentire, di quello che scoprivo attraverso loro, di tutta la gamma di sentimenti che ho provato guardando qualcuno negli occhi, di quello che c’era dentro ogni abbraccio che davo. Scrivevo dei miei sogni, ma i miei sogni ruotavano intorno a un uomo, un gatto, un’amica, un progetto ideato in due o in tre o in dieci.

Di mio, avevo carta e penna: quello che poi diventava inchiostro io l’ho sempre preso da chi mi circondava, da coloro che ritenevo i pilastri del mio piccolo microcosmo.

E adesso quel cosmo si è disgregato. Malamente esploso in un milione di stelle – questo è quello che mi piace pensare, ma in realtà un paio di bombe nucleari, per quanto poco poetiche, sarebbero l’immagine più adatta.

Non mi sono rimaste ispirazioni per le mie lacrime, per le mie felicità, per i miei piccoli rancori e la mia rabbia. Sono io con me, per la prima volta dopo molto tempo, o forse per la prima volta in assoluto. Tutto pesa quattro volte di più – anche il rumore della pioggia, anche la penna tra le dita.

Per un pò, addirittura, ho smesso di scrivere per non perdermi un fiato di chi avevo accanto. Nutrivo me stessa con i fotogrammi della mia giornata con lui, con le pieghe delle sue camicie, coi suoi desideri e le sue negazioni. Ho smesso di darmi quello che volevo, non ne avevo il tempo: ero troppo spaventata, temevo di perdermi un attimo che lo riguardasse, un secondo, un momento che era tutto quello che mi sembrava di volere. Temevo e amavo, e per questo ho smesso anche di scrivere.

Adesso non ho più camicie di cui contare le pieghe, occhi in cui cercare la verità non detta, mani da stringere troppo per l’ansia che mi sfuggissero.

Forse, stavolta, dopo anni, finalmente… posso scrivere di me.

Sometimes it lasts in love, but sometimes it hurts instead

SARA’ IL CALDO

Tutto è bollente – l’acqua del mare, l’aria che respiro, la mia pelle che non si è caramellata come avrei sognato, stile fashion-blogger-in-vacanza-a-Formentera, no: si è proprio abbrustolita tipo fettina sulla brace.

Non bastano litri di bevande così fredde da rischiare una congestione; non bastano sei docce al giorno; non basta il ventilatore a casa, in ufficio, in bagno.

Fa caldo, un caldo tipico di questo posto in cui vivo, umido, appiccicaticcio, insopportabile. Torno a respirare e a ragionare (un pò) solo a partire dalle 20, sogno le ferie, ancora lontane, quando scapperò tra i miei monti d’origine dove anche a quaranta gradi c’è la brezza e la sera un ‘giacchettino’ è sempre utile.

Sarà per il caldo, allora, che ho smesso di fare molte cose.

L’ultimo mese ho lavorato come un’ossessa, come una stakanovista, come se avessi solo questo lavoro a cui aggrapparmi (e forse, ahimé, è quasi così); ho imprecato contro ogni divinità di mia conoscenza, ma mi sono anche messa alla prova e ho capito quanto questo tortuoso percorso mi stia dando professionalmente, sono ancora fiera di me per non aver mollato quando invece avrei voluto.

Dunque, dicevo, tra una sudata e l’altra ho smesso.
Innazitutto, ho smesso di credere alle cazz*te, quelle che vi/mi raccontate così bene. Mi dispiace amici, tentativo fallito, bravi ma non bravissimi. Tocca riprovare.

Poi ho smesso di cercare il vostro aiuto e i vostri consigli, perché come diceva un buon vecchio saggio quelli vi piace darli solo se non potete più dare il cattivo esempio: quindi, visto che non me ne faccio molto, preferisco continuare a sbagliare come meglio riesco, così poi anche accusarMI è più agevole. Grazie comunque per il disturbo, eh, ho apprezzato i vostri sforzi di parlare per il mio bene e di concentrarvi su quello che cercavo di dire per un tempo superiore ai 4 minuti.

Ho smesso anche di essere così poco egoista. Ehggià. Da oggi (già da un pò, a dirla tutta) penso e bado ai fatti miei, proprio come “la massa” – cioè proprio come voi. Così vi piace, dunque piace anche a me. Non sono pronta ad affrontare alcuni dolori né a fare alcune scelte, quindi dovrei farlo ugualmente per principio, perché tutti dicono che va fatto, perché è cosa buona e giusta? Sono di nuovo spiacente ed anche molto dolente. Devo già fare molte cose per dovere – pulire casa nel week end, lavorare 35 ore a settimana quando mi va bene, allenarmi anche a queste temperature per la costante minaccia della forza di gravità e a causa dell’avvicinarsi dei miei primi -ENTA -, non ne farò altre solo per “voi”, perché test clinici hanno dimostrato che poi, a cose fatte, a piangermela ci sono solo io.

Da sola.

E allora, pardon, io faccio come mi fa stare meglio, giusto o sbagliato che sia, finché non sarò psicologicamente pronta a fare altri tipi di passi sapendo di dovermela vedere me myself&I.

Ho smesso di scrivere perchè ora non è il momento, perchè non lo sento costruttivo, perché sono ancora troppo Alice per poterle dare un seguito, perché volevo scrivere cose felici ma non sono davvero fatta per i cuori e i lieto fine.
Ho smesso di non prendermi neanche una pausa nella mia giornata lavorativa: ora c’è quella sigaretta, quella pipì (si, mi era sconosciuta fino a qualche tempo fa), quella risata, quella caffè/thé. Tutte in serenità, e se io lo faccio serenamente viene accolto tutto allo stesso modo – caro Karma, quanto c’hai ragione.

Ho smesso di finire a tutti i costi i libri che non mi piacciono – li inizio e quando capisco che non siamo fatti per stare insieme chiudo e passo al prossimo, senza remore né sensi di colpa.

Ah, ho smesso anche di mangiare Nutella – no, non vi illudete, è solo perché al momento trovo più piacevole il burro d’arachidi.

E visto che questo blog nasceva per parlare di lavoro, del mio lavoro, vi aggiorno anche su quello: sono sempre precaria ma con un pezzetto di carta valido un altro anno e qualche gratificazione – personale e pubblica – in più; la settimana scorsa, causa imminente scadenza, ho dovuto gestire qualcosa come millemila telefonate al giorno e ho ricordato cosa significhi dover ripetere per ORE la stessa pappardella e avere a che fare con casi umani e disumani di ogni ambito psichiatrico, il che mi ha fatta sentire una privilegiata anche se giovedì ho lavorato 12 ore di fila; il mio libro, il mio tessssoro, continua a girare in qualche modo, anche se lo sto trascurando, e continua a darmi tante piccole gioie.

E ora, dopo avervi fatto sapere che sono viva, io vado perché fa troppo caldo e sta sudando anche il foglio di Excel che mi aspetta da venti minuti.

Vi abbraccio tutti – ma non troppo, che si suda!

EDULCORAMI LA VITA

caramelle

Edulcorate o morte. E non parlo delle tazzine di caffé, ma delle vite.

Le nostre, quelle di tutti.

Ormai la quotidianità pare una ricerca spasmodica al dolce, zuccheroso, cuoricioso in ogni dove. E, ragazzi, per me che ho sempre amato l’agrodolce, tendo al melodrammatico e sono amara con punte di acidità spesso e volentieri, tutto questo saccarosio a sacchi è quasi insopportabile.

Da quando siamo tutti scrittori, storyteller, giornalisti de’noantri grazie ai social e ai blog, sembra che non sia più possibile avere le scatole scassate o le balls girate, essere incazzati o dissentire. Per un periodo, l’ironia acidella è andata anche di moda: ma ultimamente, complici le fashion blogger tutte macarons e cuoricini, se provi a dire che ti sei svegliato col piede storto, hai acceso la tv e ti è venuta voglia di spaccare il mondo perché è tutto sbagliato, vieni tacciato di pessimismo, pesantezza, invidia nei confronti altrui e perchènonproviasorridereallavitacheleitisorriderà.

Bisogna essere positivi, scattanti, fare colazione coi biscotti a forma di farfalla e le fragole rosso vivo – se per caso dal fruttivendolo ve ne hanno data una vaschetta un pò sbiadita, è consentito passarci sopra una mano di smalto per unghie effetto gel, così siete sicuri che in foto sbrilluccicheranno come devono -. Bisogna parlare di sogni realizzati, di karma che vi dice bene perché siete stati bravissimi e avete voluto solo gioia e felicità per gli altri; di come il sole vi renda felici e allegrissimi anche se mentre tutto il mondo è al mare voi siete chiusi in ufficio, di come la pioggia vi renda sereni e il suo rumore vi ispiri profonde riflessioni anche se siete imbottigliati nel traffico e già in ritardo di un quarto d’ora.

Non azzardatevi a dire che state passando un periodo del caiser, che il pianeta terra vi sembra un posto non proprio friendly, che la ggente, tranne rare eccezioni, non vi sta poi troppo simpatica perché avete deciso di non tollerarne i comportamenti bipolari.

Verrete giudicati dei gatti neri, dei dispersori di energia positiva (quando capirò cos’è ve lo faccio sapere, giuro), come osate fare colazione con una tazza di caffé al volo perché non c’avete tempo? Dovete trovare il tempo per voi, per godervi le piccole gioie della vita, per pubblicare post rosa Barbie su Facebook e per impostare come sfondo del vostro cellulare una foto di zucchero filato e stelline luccicose (non sapete cosa voglia dire luccicose? Bene, dovete impararlo, insieme ai cuori è uno dei cardini della filosofia degli Edulcoranti Umani) o in alternativa di fiorellini.

Ini, si, perché a Zuccherolandia si parla per diminutivi: tutti i ‘posti’, diventano ‘posticini’, tutti gli oggetti saranno ‘oggettini’ e vi renderanno così felici, oh si!

E invece oh no. Io queste vite uguali, copie conformi l’una dell’altra, con la gara a chi è più rosa, più sorridente, più felice, più zen e in pace con sé stesso/a non le apprezzo affatto.

A me piacciono gli esseri umani (si, come a quel bel figliuolo di Mengoni) che hanno il coraggio di incazzarsi, di rimanere sé stessi, di non trasformarsi in banderuole che vanno dove e come va il vento solo perché hanno subodorato che potrebbe esserci qualcosa di meglio. Mi piace chi resta dov’è, com’è, chi si evolve personalmente senza per questo elemosinare attenzioni dai gradini più alti, ridicolizzandosi, o tentare di apparire qualcuno/qualcosa che non è né mai sarà, come se la Littizzetto decidesse improvvisamente di vivere come se fosse Belen: credetemi, se somigliate alla Littizzetto lasciate perdere, per carità.

L’ho già scritto qui una volta, a proposito d’arte, ma vale per ogni aspetto della vita: preferisco la miseria e i miserabili, e con questo intendo dire che la mia ammirazione e la mia stima andranno sempre per i veri, gli scomodi, gli scazzati, quelli che magari si rovinano un pomeriggio e si tormentano per una brutta notizia ascoltata al tg, anche quando non li riguarda personalmente. Mi dispiace, ma gli edulcoranti artificiali fanno male: tento di eliminarli dalla mia dieta e idem faccio per la mia esistenza.

Con questo non vuol dire che io disprezzi il dolce, ma preferisco un quadretto di cioccolata fondente o il miele sulla frutta: cose pure, cose reali, cose naturali e spontanee. Preferisco un sorriso di qualcuno che ne riserva pochi per le occasioni speciali, preferisco chi sa dosare le parole per i giorni davvero importanti piuttosto che sventolare dalla finestra paroloni quotidiani. Mi dispiace, ma io voglio uno sfondo nero da cambiare quando davvero scoppia l’arcobaleno.

Di cose false, gommose e plasticose ce ne sono già troppe. Continuerò a scrivere favole che non è detto avranno un lieto fine, continuerò a svegliarmi male il lunedì e forse anche tutti gli altri giorni fino al venerdì, continuerò ad ammettere che vivo una vita incasinata di cui ancora non ho trovato il senso preciso e che non ho idea di come andrà domani, forse anche peggio di così, perché al momento non c’è UNA COSA che mi vada dritta nonostante anche stamattina io abbia fatto colazione con fragole e ciliegie di uno splendido rosso (e vi giuro, esistevano ed erano saporite anche se non le ho pubblicate su Instagram).

Continuerò a dire la mia che vi piaccia o no, e come sempre, come faccio da un pò di tempo e non mi sono ancora pentita di aver iniziato a fare, ribadisco che se i vostri amici sono coloro che vi danno sempre ragione, che la verità non ve la schiaffano in faccia ma preferiscono pugnalarvela alle spalle, è evidente che tra i vostri amici non ci sono io.

Poi oh, se un giorno la mia vita dovesse improvvisamente diventare un insieme di cosine perfette e luccicose, avrò modo di ricredermi.

Per ora, scusate se urto la vostra sensibilità e il vostro equilibrio karmico, resto a dieta di falsità.

E di cazzate, anche.

TUTTO IN EI

Farei

-un lungo viaggio in terre calde-ma-non-troppo, troppo colorate, abbastanza distanti, per poi tornare

-discorsi interminabili con persone che hanno voglia di parlare

-lunghe liste di sogni e desideri, anche quelli impensabili

Direi

-tutto ciò che penso a chiunque, senza pensare alle leggi sociali, al buoncostume, forse nemmeno al buongusto

-quello che merita a chi lo merita, anche quando si tratta di cose spiacevoli

-la verità a chiunque non vuole sentirla, vuole negarla, tenta di nasconderla

Vorrei

-più tempo

-più modo

-più voglia

Canterei

-canzoni troppo romantiche

-canzoni troppo incazzate

-canzoni dimenticate

Lascerei

-una scrivania che più che identificarci ci ingabbia

-le menti piccole in balia delle loro convinzioni

-le scadenze a chi si dà sempre un termine

Cercherei

-le opportunità che farebbero di me quello che volevo diventare da grande, se solo ce ne fossero

-le persone che sono davvero come sembrano, se non si sono tutte estinte

-qualcuno a cui poter dire ‘sei tu la mia città’

‘.colours

DI TROPPE PAROLE ED ALTRE AFFLIZIONI

In realtà avrei tanto da dire.

Ma io funziono così, un po’ difettata: in alcuni casi, se ho parole e pensieri in eccesso, mi zittisco.

Non mi andava di affidare a un paio di frasi ironiche e pungenti, come mi succede di fare alcune volte, tutto quello che mi passa per la testa (e deve prima attraversare i capelli, il che è un’impresa non da poco) perché davvero è troppo.

La voglia di scrivere, che in alcuni periodi mi abbandona completamente, invece in questi giorni è prepotente e forte e picchia coi pugni alla porta, maleducata, da quando mi sveglio a quando mi addormento – il più delle volte alle 23, distrutta e sfatta ancora col pigiama invernale e la coperta termica perché sono una freddolosa inguaribile; e non dimentichiamo la tazza di tisana al finocchio posata sul comodino.

Sto scrivendo tanto, ancora di più sto pensando tanto a scrivere, il che non fa altro che confermarmi quanto mi piacerebbe poterlo fare per vivere (si, lo so che le utopie sono pericolose, ma anche la realtà lo è, quindi…). E quando dico ILMIOEDITORE (ho un editore!) è come se un pezzettino si incastrasse al posto giusto e mi facesse dimenticare drammi, dilemmi, capi, salari sotto il minimo, contratti carta igienica, futuro fumoso.

Sto cercando ogni possibilità per cambiare la mia vita – direi pure stravolgerla, sotto ogni punto di vista: il lavoro, la città, i sentimenti e tutto ciò che ci gira intorno. Sto cercando a tutti i costi un mezzo per mettere punti, aggiungere virgole, evidenziare dei pezzi e cancellarne altri. E questo mi spaventa un pò, perché in fondo credo che chi la dura la vince e dunque dovrei stare bene attenta a cosa desidero disperatamente perché potrei ottenerlo. Ma paure a parte, sono qui a volerlo fortemente, quindi miei cari stravolgimenti, palesatevi! Sono pronta, con tutto il mio coraggio, e con tutti i lividi che ne conseguiranno.

Sono satura. Di quello che faccio, che vedo e che sento; quindi bisogna cambiare, ed io ho deciso di darmi un tempo per farlo, un tempo che non è molto. Saranno passi indietro o passi avanti ancora non so dirlo, ma devo muovermi.

Forse, come mi diceva una lettrice in un commento precedente, l’immobilità non fa parte della natura umana. E invece io non sono molto per i cambiamenti, preferisco la routine, ci penso settordicimila volte. Ma alla fine, se concludo che è venuto il momento, non ce n’è più per nessuno, e adesso, signori miei, il momento è davvero qui.

Sarà la stanchezza della precarietà oppure sarà che sono figlia del mio tempo in tutto e per tutto: alla precarietà ci si abitua e si finisce per trovare noiosa quella che altrove, o in un altra epoca, sarebbe solo normalità.

Sono stanca anche di chi vive secondo l’ottica del Fake it You Make it. Conta solo quello che si vede, poi in fondo chissenefrega di quello che è? E no, e no, carini, a me frega eccome. Ecco perché vi ho abbandonati a crogiolarvi nei vostri sforzi di sembrare, di farcire ingigantire sezionare stringere o allargare.

A me piace che si veda quello che c’è sotto. Sbagliato, graffiato, imperfetto ma vostro. Mi scadete come lo yogurt del Lidl alla pera 0,1% di grassi dopo venti giorni in frigo quando mi accorgo che in realtà la vostra tanto sbandierata personalità non è che un’accozzaglia di pezzi rubati dagli altri e incollati -male- alle vostre vite per renderle speciali.

Io, come sempre e come ho imparato da qualche anno a questa parte, faccio come i pinguini di Madagascar: sorrido e annuisco. Fingo di non capire e capisco. Chiudo gli occhi ma vedo comunque. E lavoro ai fianchi, agisco nelle retrovie per cercare la mia strada, in compagnia di me, che sono l’unica persona che so davvero come è fatta e da cui so cosa posso aspettarmi.

Ecco. Io ve l’avevo detto che avevo troppo da dire. Era meglio se stavo in silenzio, nevvero? 😉

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Fuori c’è il sole, ebbene si. Il sole!!! Io sono dentro, ovviamente, ma ciò che conta è che un fantastico, caldo raggio di sole filtra dalla portafinestra del mio ufficio, riscalda il vetro e finisce dritto dritto sui miei polpacci, che dio-solo-sa quanto abbiano bisogno di calore dopo un lungo e umido inverno.

Sento pure gli uccellini cinguettare (oltre ad un tosaerba, ma va bé ragazzi, si fa quel che si può). Per di più, oggi è VENERDì, e, salvo bombe atomiche e allarmi internazionali, non è previsto che domani io lavori.

Ho iniziato le pulizie di casa oggi, in pausa pranzo, per avere meno da fare domani e potermi sollazzare un pò di più sotto le coperte, o in poltrona con un libro, o in balcone con una tazza di caffellatte. Si prospetta un week-end che volerà in un attimo come tutti gli altri, ma piacevole. E ho anche pranzato con fusilli ai peperoni cruschi perché sono TREMESI che non torno nella mia meravigliosa terra d’origine e inizio un tantino a sentirne la nostalgia (come? Non sapete cosa sono i peperoni cruschi?! Bene, documentatevi perché davvero non so come abbiate fatto a vivere senza saperlo – e senza mangiarli – fino a questo momento!).

Insomma, è una giornata da ottimismo prorompente e sprizzante da tutti i pori (se ci leggete un velato riferimento allo Spritz: fate bene, benissimo).

La realtà invece è che sto scrivendo poco qui, ultimamente, perché come mi ha fatto notare qualcuno nel post precedente mi sto trasformando nella versione malriuscita e più pallosa di Giacomo Leopardi. Ho sempre tanta, tantissima voglia di scrivere – frase dietro la quale potrebbe celarsi la velata minaccia di un secondo libro – ma quello che voglio scrivere, il più delle volte, non è ironico, non è divertente, non sono nemmeno sicura che sia interessante.

Penso molto, rifletto di più, e OVVOVE!!, traggo conclusioni. Mi viene voglia di riportare tali conclusioni su carta e su pixel, e in genere faccio la prima ed evito la seconda, perché capisco che di ‘sti tempi c’è voglia di far tutto tranne che di mettersi a pensare. Dovrei averne poca pure io, che sono nel mese bollente dell’anno a livello lavorativo, perché tra quindici giorni c’è la scadenza più importante di tutti i dodici mesi, perché la mole di lavoro che ho è tale che non me ne rendo neanche conto e perchè – ovviamente – siamo indietro, quindi presumibilmente le prossime due settimane saranno una riproduzione realistica e dettagliata di Gomorra con alcune scene tratte da Armageddon.

Sapevo che il momento sarebbe arrivato e sto cercando di viverlo un giorno alla volta, ma nel mentre è come se mentalmente mi stessi preparando al peggio. Al PEGGISSIMO, anche se non si può dire. Pertanto, sarà questa la ragione per cui non sono in vena di godere dei piccoli piaceri della vita e gioire del fatto che finora sono stata in grado di mantenere una vita apparentemente normale e una calma invidiabile?

Forse. Nel frattempo faccio questo difficilissimo esercizio che per me è come una corsa a ostacoli con triplo salto carpiato attraverso un cerchio di fuoco, e cioè: vivere senza farmi domande, e poi si vede.

Partirò dal fatto che tra 2 ore e 30 minuti inizia il mio week-end, e spero sappia di Spritz.

Cip cip!

TRE PAROLE A TE, DUE A ME

C’è in effetti una strana ripartizione di parole tra i diversi stati d’animo che una persona è in grado di avere.

Avete presente la felicità? Si, proprio lei, l’irraggiungibile, cercata da tutti, che però si trova raramente ed è sempre così fugace. Bene, cosa vi viene in mente per esprimerla?

Sono feliceeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee! è tutto quello che viene in mente a me. Non c’è altro. Posso ripeterlo all’infinito, felice felice felice felice feliceeeeeeeeeeeee!, ma è difficile che io pensi ad altre declinazioni. La gioia, o meglio la feligioia, come piace chiamarla a me (un altro dei neologismi su cui vorrei mettere il copyright), si esprime poco e bene. E’piuttosto semplice, visibile, lampante, chiara.

Non ha bisogno di molte parole, ecco. Ne tiene da parte due o tre e bon, finita lì.

Ora, invece, pensate alla tristezza. Sono sicura che tutti, prima o poi, abbiamo dovuto farci i conti, con questa subdola inetta che si diverte a darci fastidio a periodi alterni. Più leggera, più pesante, passeggera o stabile, generale e diffusa o acuta e pungente perchè legata ad un motivo specifico.

Bene. Pensate a cosa avete da dire quando – se – avete il privilegio di sfogarvi con qualcuno e buttar fuori quello che provate.

Si. Infatti.

Le parole sono pressapoco infinite. Ci sono i colori, quelli scuri, ci sono le nebbie ed il fumo, ci sono strappi, ferite, crepe e lacerazioni varie, ci sono i segni e i lividi, c’è tutta la gamma di umani sentimenti che ha a che vedere con qualsiasi cosa possa infrangersi, spezzarsi, svanire, illudere, perdersi. Ci sono le lacrime e tutte le loro consistenze: pesanti, bollenti, copiose, inarrestabili, infinite, e a volte anche finite, quando pensiamo di averle piante tutte.

Potremmo scriverne e parlarne per ore, anche quando ci sembra di non avere la forza di farlo.

Troveremo sempre un’altra parola, precisa, perfetta, che esprima un dolore, o forse non ancora abbastanza quindi dovremo continuare a cercarne una migliore.

E’la tristezza che genera le cose. L’arte in particolare. Le canzoni, i libri, le fotografie, le poesie.

Difficilmente il genio si esprime nei suoi momenti di serenità o di gioia. Il genio si alimenta di tutto quanto è nero, cattivo, infelice, insopportabile. Il genio si alimenta di miseria, e no, non è una frase troppo grossa per poterla digerire.

Pensateci su, pensate a quando avete scritto il vostro post più bello, scattato la vostra foto migliore, o anche solo cucinato un dolce che ha fatto sognare. Probabilmente eravate tristi, nervosi, delusi, sconfitti e avevate bisogno di incanalare tutto questo in un gesto pratico di creazione.

Ecco perché io m’innamoro perdutamente di chi attinge alla miseria, alla tristezza, al dolore, al nero.

Io la tristezza la trovo così reale, molto, molto più della felicità.

(Se vi state chiedendo cosa mi è successo, che mi sono bevuta a colazione o quale sostanza ho assunto prima di scrivere, la risposta è solo che mi sono imbattuta in lui: http://www.valeriobispuri.it/works/ , sono corsa a prendere il suo libro in libreria, mi sono innamorata e ho scritto questo post di getto. Chiedo venia!)

TODO PASA CUANDO PASA

Voi ce l’avete un posto dei sogni?

Uno di quelli dove andreste anche domani. Che vi affascina senza sapere perché, dal quale vi sentite inspiegabilmente ed irrimediabilmente attratti. Che vi incanta ad ogni documentario, che vi fa venir voglia di iniziare da oggi a risparmiare mettendo via ogni centesimo del vostro precarissimo (o no) stipendio per arrivare ad una cifra utile e comprare un biglietto. Un posto di cui amate le fotografie, i colori, le luci, la lingua e persino le ombre.

Io ce l’ho. Io vorrei andare qui.

Ci sono Paesi che mi attirano di più ed altri di meno, ma in maniera generale lo visiterei tutto, da cima a fondo, e badate bene: il mio itinerario relegherebbe le mete più turistiche all’ultimo e come brevi tappe.

Quello che io vorrei esplorare è tutto il resto. Il resto, già. Proprio quello dimenticato, temuto, considerato “pericoloso”.

Non so cosa sia a connettermi così forte con questi posti, posti con cui non ho nessun legame parentale, nessuna esperienza, niente di niente. Ho conosciuto solo un paio di persone, peraltro provenienti da aree completamente differenti, e a parte amare visceralmente la loro tonada, quell’accento dolce e sbiascicato che rende tutto poetico, anche una serie di imprecazioni scurrili (mentre mi rimproverano il mio spagnolo troppo accademico, con il ceceo, ma se ho studiato con una professoressa di Madrid che colpa ne ho?) e piantarmi i loro sguardi in mente per la vita – è che sembrano sempre, tutti, così pieni di storie da raccontare – non ho avuto nessun altro contatto diverso.

Eppure questi luoghi esercitano su di me un’attrazione viscerale, totale e fatale. Scambierei dieci week end a Parigi, un tour in America e qualsiasi vacanza nei bellissimi Paesi nordici pur di andare in Sudamerica, ed andarci come dico io.

Vorrei un lungo viaggio con pochi vestiti, ma non dovrebbero mancare carta e penna perché avrei così tanto da scrivere, e scriverlo nell’esatto istante in cui lo penso, che di libri poi potrei pubblicarne un paio. Vorrei una guida che fosse del posto, e non per raccontarmi i monumenti, ma le giornate della gente. Ecco, vorrei la gente. Tanta, tanta gente con cui fermarmi a mangiare e parlare, che si sa che cibo e parole sono due cose direttamente collegate col cuore. Vorrei un viaggio coraggioso, un viaggio in cui incontrare i bambini, quelli che popolano moltissimi dei miei scenari onirici, un viaggio in cui legarmi così tanto a posti e persone da starci male al momento di ripartire. O magari vorrei un viaggio che mi portasse a scegliere di non ripartire più.

Ovviamente, come ogni sogno che si rispetti, non ci sono mai neanche andata vicina. I soldi, il tempo, l’organizzazione, la compagnia, blablabla. Tutte le solite chiacchiere che usiamo un pò come scuse per uscire poco e male dalla nostra comfort zone.

Però io ci spero sempre, e magari succederà quando sarà il momento, il momento esatto e giusto.

Perché proprio uno di loro, una sera estiva di qualche anno fa, dopo un sorso di un bicchiere alcolico che non ricordo con certezza cosa contenesse, mi rivelò questo grande segreto.

Lila, no te preocupe. Todo pasa cuando pasa.